ROVIGO – L’inverno demografico polesano si combina con la congiuntura e così nella demografia delle imprese, in particolare quelle artigiane, nell’ultimo decennio è Rovigo la provincia veneta che in termini percentuali (meno 31,4 per cento) ha perso più artigiani: ben meno 2.905 tra titolari, soci e collaboratori familiari, mentre la media veneta è meno 24 per cento con un crollo verticale di quasi 44.500 unità.
Inoltre il numero di imprese artigiane attive, sempre tra 31 dicembre 2014 e fine 2024, è diminuito in Polesine da 6.934 a 5.479 (meno 1.455). La riduzione interessa tutte le regioni: in particolare Marche (meno 28,1 per cento), Umbria (26,9%), Abruzzo (26,8) e Piemonte (26%), mentre il Mezzogiorno ha contenuto le perdite al 18,4 per cento, grazie agli investimenti in opere pubbliche legati al Pnrr e agli effetti positivi derivanti dal Superbonus 110 per cento.
IL QUADRO
A denunciare che l’artigianato è sempre più in crisi è l’Ufficio studi della Cgia, secondo i dati dell’Inps. Da un lato la riduzione di artigiani è da ricondurre in parte al processo di aggregazione-acquisizione: alle crisi economiche (ultima in ordine di tempo quella post pandemia di coronavirus) si è reagito anche con l’unione aziendale, che ha compresso la platea degli artigiani, e contribuito ad aumentare la dimensione media delle imprese: con una maggiore produttività in comparti come trasporto merci, metalmeccanico, installatori impianti e moda. D’altro lato, però, se già oggi è diventato difficile reperire alcune professionalità, con il progressivo invecchiamento della popolazione artigiana e la contrazione dei giovani che si avvicinano a questi mestieri (trend accelerato dal forte calo demografico) è molto probabile che entro una decina d’anni sarà quasi una missione impossibile trovare sul mercato un idraulico, un fabbro, un elettricista o un serramentista in grado di eseguire riparazioni e manutenzioni.
Tuttavia, alcuni settori artigiani hanno dimostrato resilienza: nelle “altre attività di servizi”, settore che comprende anche acconciatori, estetisti e informatica, per esempio, le imprese artigiane sono diminuite in dieci anni solo del 3 per cento (da 893 a 866). I saldi sono fortemente negativi, al contrario, nelle attività manifatturiere (meno 28 per cento con 523 imprese), costruzioni (meno 24 e 611 imprese non più attive), servizi di alloggio e ristorazione (meno 19,7con 54 chiusure), commercio e riparazioni (meno 15,2% con 56 chiusure). E la maggiore produttività nel comparto “trasporto e magazzinaggio” è avvenuta con la perdita di 155 imprese (da 508 a 353 nel decennio passato). Le chiusure scontano vari fattori: insufficiente ricambio generazionale, feroce concorrenza dalla grande distribuzione e dall’e-commerce sommata a nuove abitudini di consumo usa e getta, e aumento dei costi (dai canoni d’affitto ai tributi).
L’INVITO
La proposta della Cgia, allora, è istituire un “reddito di gestione delle botteghe commerciali e artigiane” per chi (giovane o meno) gestisce o apre un’attività nei centri fino a diecimila abitanti. E poi valutare gli effetti della riforma, in itinere, della legge quadro 443 del 1985, con previsioni, tra le altre, che nel settore alimentare si possa vendere direttamente al pubblico i prodotti di propria produzione. E ancora, rendere più flessibile la costituzione dei consorzi, e istituire un fondo biennale da 100 milioni per facilitare l’accesso al credito, con il supporto dei Confidi e della nuova Artigiancassa. Infine, è previsto di innalzare da 18 a 49, secondo le normative europee, il numero massimo di dipendenti per un’impresa artigiana.
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