Se fossimo un Paese un po’ più serio, dovremmo continuamente farci domande su come fare ad affrontare quel macigno che pesa su di noi e mette a rischio soprattutto le prospettive delle nuove generazioni.
Si tratta, ovviamente, del debito pubblico: un gravame che continua a battere record (siamo a 3.070 miliardi di euro) e che rappresenta una delle cause principali del fatto che i redditi reali sono oggi inferiori di quelli di trent’anni fa.
I nostri conti pubblici devono ogni anno fronteggiare un prelievo aggiuntivo, che non è destinato alla sanità o alla scuola, ma che copre gli interessi sull’indebitamento.
Fortunatamente in questa contingenza storica il debito ci può costare un po’ meno (i tassi sono bassi), ma questo non ci deve mai far dimenticare che dipendiamo sempre più dalle scelte monetarie della Bce, che ora ha questa politica, ma non si fino a quando (anche perché tutto questo, ovviamente, produce inflazione).
Non bisogna trascurare che rischiamo di “abituarci” a una situazione un po’ eccezionale, che permette di evitare una politica di vera austerità, ma che potrebbe venir meno entro un quadro generale differente.
Per giunta, nonostante i bassi tassi d’interesse sul debito i governanti che si susseguono sono costretti ad aumentare di continuo il prelievo fiscale. E se in queste ore la Cgia ci mostra che abbiamo in Italia molti meno artigiani che dieci anni fa (circa un quarto è sparito) è proprio a causa di questa tassazione quanto mai elevata.
Entro il quadro desolante dell’indebitamento pubblico, è triste dover constatare – entrando nei dettagli dei dati di giugno – che mentre gli enti previdenziali non vedono crescere il debito e gli enti locali addirittura lo riducono (-1,7 miliardi), l’esposizione delle amministrazioni centrali sono aumentate di 20 miliardi: proprio mentre le casse pubbliche incameravano ben 8,5 miliardi in più rispetto allo stesso mese del 2024.
Il quadro è desolante perché sembra che nessuno sia interessato nemmeno ad avanzare proposte. Di fronte a questa emergenza, in effetti, si potrebbe varare un piano di grandi privatizzazioni: se ad esempio lo Stato vendesse aziende ultradecotte come la Rai o Poste Italiane (solo per citare le più note), si potrebbe iniziare a invertire la tendenza, riducendo lo stock dei debiti.
Bisognerebbe liberare il ministero dell’Economia da tutte le sue innumerevoli partecipazioni azionarie e svuotare la Cassa Depositi e Prestiti, che controlla molte industrie di grandi dimensioni.
Questa potrebbe essere una strada. Perché non se ne parla?
Un’altra ipotesi da prendere in esame potrebbe essere quella di “localizzare” il debito, operando una sua denazionalizzazione. Se ad esempio fosse ripartito tra le regioni (caricando maggiormente le più produttive, ovviamente), probabilmente questo renderebbe più responsabili gli attori pubblici locali, a cui ovviamente dovrebbero essere pure assegnata la gestione delle entrate.
Neppure questa strada è presa in esame: neppure per contestarla.
La sensazione è che nessuno ritenga possibile porre rimedio alla situazione. E allora si procede tranquillamente verso il baratro, con un fatalismo che non promette nulla di buono.
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