L’ex assessore ai Parchi della Lombardia: « Milano deve restare un centro nevralgico di attrazione per gli investimenti e la creazione di impresa, ma allo stesso tempo una città che offre possibilità di emancipazione a tutti»
«Negoziare o abdicare. Questa è l’alternativa».
Cosa ha fatto Milano?
«Ha abdicato. Ha consegnato l’indirizzo di trasformazione della città a chi ha un interesse speculativo».
Il «solito» attacco ai fondi immobiliari?
«Tutt’altro. Negoziare con i grandi investitori vuol dire praticare il riformismo. Che è storia e identità di Milano. Esiste una strada win-win: gli investitori guadagnano, la città anche». Fiorello Cortiana, milanese, due volte senatore con i Verdi, per commentare la stagione delle inchieste sull’urbanistica parte da una storia degli anni Novanta.
Non è troppo antica?
«È emblematica. Ero assessore ai Parchi e territorio in Regione. Si progettava la nuova fiera. La volevano tutti a Lacchiarella, evidentemente per un interesse su quei terreni».
Invece è stata costruita a Rho.
«Fui io a volerla lì, su una raffineria dismessa, invece che nel Parco Sud. A un chilometro da Molino Dorino, dunque con la possibilità di portare agevolmente il metrò. Quanto ci sarebbe costato solo in trasporti farla dove la volevano gli “sviluppatori” dell’epoca?».
Qual è la morale?
«Gli “sviluppatori” privati hanno avuto comunque il loro beneficio, e la città ha avuto il suo. L’interesse pubblico e quello privato possono e devono convivere. Il tema è l’equilibrio».
Si riferisce alle chat intercettate tra immobiliaristi e amministratori di Palazzo Marino?
«Non mi interessa la sfera giudiziaria. E nemmeno la politica che chiede la carità agli imprenditori».
Che politica, allora?
«Quella con una visione. Milano deve restare un centro nevralgico di attrazione per gli investimenti e la creazione di impresa, ma allo stesso tempo una città che offre possibilità di emancipazione a tutti. Questa è la funzione storica di Milano, e ciò che l’ha resa una metropoli avanzata, globale, europea, paragonabile a Barcellona, Berlino… Ma oggi siamo in bilico: la distanza economica e sociale tra centro e periferia si allarga, ed è un pericolo».
Mica sarà colpa dei grattacieli se le periferie sono in decadenza…
«Certo che no. Ma non possiamo rinunciare a una politica con l’ambizione che la città cresca e rimanga un’opportunità per tutti. Il lavoro politico non può essere funzionale solo all’interesse dei fondi».
Non è altrettanto concreto il rischio che questa fase storica allontani gli investimenti?
«Prospettiva errata. Serve solo a buttare fumo, paventare pericoli che non ci sono. Milano non perde capacità di attrarre capitali se la politica detta un indirizzo di trasformazione che assicuri il giusto valore all’interesse pubblico».
Non sta diventando un po’ populista sparare sui fondi immobiliari?
«Prendiamo Garibaldi-Repubblica. Esperienza riuscita. L’obiettivo dev’essere l’intero sistema territoriale: puntando alla qualità urbana, architettonica, sociale, ambientale. Questo genera valore. Anche con i grattacieli. Il tema è: in che visione di città nascono? Si può fare profitto in uno scenario giusto».
Ora però c’è il rischio che la città si fermi.
«Non accadrà. Milano non è un museo. È un organismo in continua trasformazione. La costruzione delle case popolari nel dopoguerra fu un momento eccezionale di sviluppo: al netto di come sono ridotte oggi, abbiamo eccezionali esempi di edilizia pubblica in cui i privati hanno guadagnato e le famiglie hanno trovato una possibilità di crescita ed emancipazione».
Ancora il passato?
«È identità. Che andrebbe conservata oggi: Milano ha un milione di metri quadrati di ex scali ferroviari dismessi. Un’opportunità enorme. Dipende da chi la guiderà davvero».
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