Il panorama normativo della previdenza nel pubblico impiego si avvicina sempre di più a quello del settore privato: ecco cosa prevede il nuovo decreto per i lavoratori con ridotta capacità lavorativa.
Con il decreto-legge n. 25/2025 (Disposizioni urgenti in materia di reclutamento e funzionalità delle pubbliche amministrazioni), pubblicato in Gazzetta Ufficiale, arriva infatti una novità di rilievo: l’articolo 16 introduce per la prima volta la possibilità, per i dipendenti pubblici neoassunti, di proseguire l’attività lavorativa anche in presenza di una riduzione della capacità lavorativa, beneficiando contemporaneamente dell’assegno ordinario di invalidità.
Nova previdenza nel pubblico impiego per i lavoratori con ridotta capacità lavorativa
In pratica, si applica anche nel comparto pubblico un meccanismo già consolidato nel privato: chi vede la propria capacità lavorativa scendere al di sotto di un terzo non viene automaticamente escluso dal mondo del lavoro, ma può continuare a svolgere la propria mansione e allo stesso tempo ricevere un sostegno economico aggiuntivo.
La misura riguarda esclusivamente i lavoratori assunti dopo il 15 marzo 2025, data di entrata in vigore del provvedimento. Restano però esclusi i comparti sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico.
Una riforma pensata per semplificare e contenere i costi
Fino ad oggi, il pubblico impiego era caratterizzato da una frammentazione complessa: trattamenti di inabilità differenti, requisiti di accesso variabili, organi diversi incaricati di accertare l’invalidità e criteri eterogenei di calcolo delle prestazioni. Con l’introduzione del nuovo schema, queste differenze si riducono sensibilmente.
Secondo la relazione tecnica allegata al decreto, la prospettiva è quella di un risparmio graduale sulla spesa pensionistica, sebbene non quantificato al momento.
Le gestioni previdenziali interessate
L’articolo 16 individua con precisione le casse previdenziali coinvolte. La nuova disciplina si applica ai dipendenti iscritti a:
- CTPS (Cassa trattamenti pensionistici statali);
- CPDEL (dipendenti degli Enti locali);
- CPS (sanitari);
- CPI (insegnanti di scuole parificate);
- CPUG (ufficiali giudiziari e figure assimilate).
Oltre a queste, la platea include anche gli iscritti ai fondi speciali di Ferrovie dello Stato e Poste italiane, due bacini che da soli rappresentano una quota significativa dei lavoratori pubblici.
Pubblico e privato sempre più vicini
Con questo intervento normativo si compie un passo importante verso l’armonizzazione delle regole previdenziali tra pubblico e privato. Se nel settore privato già si prevede che un lavoratore con invalidità superiore al 67% potesse rimanere in servizio e cumulare stipendio e assegno, ora la stessa possibilità si estende – con i limiti visti – al settore pubblico.
Da un lato, l’iniziativa si configura come un passo avanti significativo in termini di tutela e valorizzazione dei lavoratori con ridotta capacità lavorativa. La possibilità di continuare a lavorare, pur percependo l’assegno di invalidità, offre una maggiore sicurezza economica e una stabilità occupazionale a una categoria di dipendenti che, in passato, rischiava di essere estromessa dal mondo del lavoro.
Dall’altro lato, però, non si può ignorare il potenziale effetto “boomerang” di questa misura. Se da una parte si garantisce la sicurezza del posto di lavoro, dall’altra si potrebbe implicitamente spingere i dipendenti, nonostante le loro condizioni di salute, a rimanere in servizio per motivi puramente economici. La logica di “incentivare” la permanenza al lavoro, infatti, sembra celare una finalità più pratica e meno orientata al benessere del lavoratore: quella di alleggerire il carico sul sistema pensionistico e fiscale.
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