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Il conflitto globale permanente, e i diritti degli individui


Il rischio di guerra condiziona anche la politica economica (sia per quanto attiene alla politica industriale sia per quella commerciale). Ciò è particolarmente evidente nei Paesi coinvolti nei conflitti armati, come la Russia, dove l’intero sistema produttivo nazionale è stato rapidamente adattato alle esigenze belliche (armamenti, altre forniture a sostegno della guerra, mantenimento dell’esercito, eccetera) che vengono anteposte a ogni altra necessità.

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Quando scoppia un conflitto, lo Stato prende il sopravvento sulla società civile: i fini degli individui passano in secondo piano rispetto a quelli della collettività, in più di un senso. Comportamenti prima permessi vengono visti con sospetto, sottoposti a vincoli o addirittura vietati (per esempio, commerciare con imprese straniere o scambiare prodotti suscettibili anche lontanamente di utilizzi militari).

La stessa organizzazione della società cambia in modo talvolta traumatico: ai lavoratori viene ordinato di svolgere mansioni diverse da quelle consuete, alle imprese di produrre beni differenti perché utili allo Stato o alle forze armate, ai consumatori di rinunciare ai loro prodotti preferiti – perché vengono dall’estero o perché servono allo Stato – e di sostituirli con dei succedanei.

In un’economia di guerra, il benessere sociale perde importanza e le ambizioni dei singoli possono addirittura diventare una minaccia per lo Stato: tutti, insomma, anche quelli che non indossano l’uniforme, devono metaforicamente marciare al passo dell’oca.

Così funzionano le cose in tempo di guerra. Ma oggi anche molti Stati che non sono direttamente toccati dai conflitti – ove non si può dunque parlare di economia di guerra in senso stretto – stanno comunque adattando il proprio sistema economico, incrementando le spese per la difesa, differenziando le forniture di materie prime e fonti energetiche, accorciando le catene di approvvigionamento per riportarle in patria o in Paesi ritenuti affidabili (si parla, al riguardo, di friendshoring o de-risking) ed esercitando un più stretto controllo sugli investimenti esteri e sulle società di Paesi ritenuti potenzialmente ostili.

Anche in questi contesti, i diritti degli individui, seppure non siano compressi in misura comparabile, sono comunque sottoposti a limiti che in periodo di pace non hanno ragione di esistere. Per esempio, le restrizioni al commercio internazionale si estendono ai prodotti che solo indirettamente possono essere impiegati a scopi bellici e gli scambi con (o gli investimenti da) soggetti esteri vengono sottoposti a uno scrutinio speciale anche quando riguardano Paesi «amici». Più in generale, la pervasività dell’intervento pubblico aumenta, anche attraverso un aumento della spesa pubblica e della quota di Pil intermediata dal governo.

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Sebbene l’economia di guerra sia molto diversa da quella in tempo di pace, il passaggio dall’una all’altra non avviene quasi mai attraverso una cesura secca: è spesso una transizione graduale che si realizza attraverso piccole modifiche, ciascuna delle quali apparentemente sensata e giustificabile. Ma che, viste in retrospettiva, finiscono per innescare cambiamenti più profondi e forse persino preterintenzionali nel funzionamento e negli obiettivi della nostra società.

(…) I venti di guerra condizionano, infine, la regolamentazione delle relazioni economiche internazionali. L’obiettivo dichiarato degli Stati è di consolidare, a qualunque costo, la propria posizione sullo scacchiere internazionale, nell’eventualità di futuri conflitti, contrastando al tempo stesso la crescita delle potenze percepite, a torto o ragione, come ostili.

Così ogni giorno si adottano misure, sempre più invasive e discrezionali, volte a mantenere o ad assicurare la sovranità tecnologica, controllare gli investimenti esteri, monitorare i flussi di dati e l’accesso dei terzi alle piattaforme online, proteggere le imprese dalla concorrenza straniera e creare campioni nazionali a forza di sussidi.

In questo modo, però, si ingenera un pericoloso circolo vizioso: i timori di guerre future inducono a intraprendere politiche che a loro volta incrementano la conflittualità e che possono rapidamente degenerare. Purtroppo, la storia ci insegna che dalle guerre economiche a quelle belligeranti il passo è breve.

Tratto da “Capitalismo di guerra. Perché viviamo già dentro un conflitto globale permanente (e come uscirne)”, di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro, 224 pagine, 17,50 euro



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